MIO ZIO VISTO DA VICINO

Mio zio, fratello di mio padre, è sempre vissuto nella nostra famiglia: io e mio fratello gli siamo cresciuti vicino. Potevamo seguirlo con il nostro cane nelle passeggiate che si facevano durante la buona stagione: camminavamo insieme attraverso i prati e lungo il margine dei boschi, mentre lo zio ci faceva imparare il nome delle piante, oppure ci faceva osservare le impronte lasciate sul terreno da qualche animale selvatico. Per orientarci, ci spiegava che era facile trovare la direzione nord cercando sulla corteccia degli alberi più vecchi la parte scura e muschiosa.
Ci piaceva la sua compagnia perché dimostrava di amare e conoscere bene la natura. Quando si incontrava sulla strada di campagna qualche chiocciola che correva il rischio di essere schiacciata, la raccoglieva e la posava al sicuro tra l'erba. Durante le nostre passeggiate ci raccontava anche della sua infanzia trascorsa facendo il pastore: doveva badare ad una piccola mandria di mucche, alzandosi all'alba e trascorrendo tutta la giornata all'aperto, nei boschi. Mentre le bestie pascolavano tranquille, utilizzava la corteccia degli alberi come superficie per disegnare incidendovi con un coltellino figure di animali. Ancora oggi su un vecchio faggio nel bosco presso l'abitato di Godenzo si può vedere l'immagine di un capriolo con la data (maggio 1935) e il nome del giovane autore.
Ogni mattina andava a dipingere in un vecchio edificio situato al lato opposto del paese rispetto a dove si trovava la casa dove abitavamo. Un tempo esso ospitava le scuole elementari: mostrava ovunque i segni dell'abbandono, i muri erano scrostati e, tra le crepe delle antiche scale in pietra, cresceva qualche ciuffo d'erba. All'interno lo spazio era diviso in due grandi stanze dal soffitto molto alto e dotate ciascuna di cinque enormi finestre dalle quali filtrava un'ottima luce diffusa. Nella stanza in cui lo zio dipingeva, esposta a nord, c'era una bella stufa in maiolica, grande quanto un armadio; alle pareti erano appoggiati lunghi tavoli con riviste, libri e una grande quantità di rotoli di carta da disegno, mentre sotto trovavano posto tante tele nuove, barattoli di vernice e di trementina. Le pareti erano ricoperte di quadri e di disegni che mio zio aveva fatto da giovane e che non erano in vendita. L'altra stanza, esposta a sud, serviva da deposito dei quadri finiti, che in parte erano appoggiati al muro in esposizione.
Poiché non avevamo ancora il telefono (quasi tutto il paese si serviva di quello pubblico presso la "cooperativa", andavo volentieri dallo zio con qualche messaggio da parte della mamma relativo agli affari di casa. L'enorme porta dello studio era sprovvista di campanello e non veniva chiusa a chiave, così, essendo ancora piccola, dovevo appendermi alla maniglia con entrambe le mani ed abbassarla con forza, per riuscire ad aprirla.
Entravo in silenzio e, timorosa di disturbare, mi affiancavo allo zio, che stava dipingendo, dalla parte della tavolozza, aspettando che fosse lui ad iniziare la conversazione. Di lì a poco infatti, per mettermi a mio agio, iniziava con qualche battuta che mi faceva ridere e così prendeva avvio il nostro dialogo.
Osservavo la sua abilità nel mescolare nuovi e, per me, impensabili colori che poi stendeva sulla tela: mi affascinava la grande tavolozza che reggeva con la sinistra, sulla quale erano disposti i colori puri che poi venivano mischiati con la spatola. A volte insistevo perché mi facesse usare il pennello per riempire qualche spazio bianco sulla tela e, di fronte alla mia eccessiva perseveranza, rimediavo una pennellata sul naso. Mi piaceva anche il forte profumo di trementina e dell'acqua ragia che stavano sul mobile vicino al cavalletto e che servivano per pulire i pennelli.
Talvolta mi chiedeva di posare per farmi un ritratto. All'inizio l'idea mi entusiasmava, per via della novità, ma poi non lo facevo tanto volentieri, perché dovevo rimanere immobile parecchi minuti prima che mi concedesse un po' di riposo. Egli mi fissava attentamente, mentre con la mano destra tracciava grandi segni sulla tela e contemporaneamente mi faceva parlare per rilassarmi. Ogni volta che mi permetteva di riposare, scendevo dalla sedia, mi avvicinavo alla tela per contemplare il risultato ed il proseguimento del lavoro, manifestando il mio compiacimento per la perfetta esecuzione dei vestiti, piuttosto che per la somiglianza del viso. Alla fine ero così emozionata e felice che saltavo dalla gioia e allungavo le mani per vederlo da vicino. Quel ritratto è ancora esposto in casa e quando qualcuno chiede chi sia quella bambina, lo zio risponde che è la nipote "che no la steva mai ferma!".
Col passare del tempo accadeva sempre più spesso che accompagnassi da mio zio i visitatori che venivano per vedere i quadri, specialmente dopo il successo ottenuto a Luzzara nel 1973 con la Mostra dei Naïfs, quando una sua opera venne acquistata dal Museo dei Naïfs.
Venivano a farci visita persone da fuori provincia, soprattutto dall'Emilia e dalla Lombardia. Ricordo in particolar modo Padre Benigno Benassi, direttore dell'Antoniano di Bologna, che fece illustrare a mio zio alcuni libri dedicati alla figura di san Francesco d'Assisi: mi appariva come un uomo molto buono ed allegro.
Spesso venivano a casa anche noti fotografi, come Angelo Cozzi per la "Domenica del Corriere" o Angelo Frontoni di Roma per "Oggi". Angelo Cozzi si fermava spesso con lo zio a parlare di pittura e a me ed a mio fratello ha lasciato in ricordo una fotografia accanto ai nostri rispettivi ritratti. I giornalisti si trattenevano frequentemente più del tempo necessario all'intervista: in un clima sereno e cordiale parlavano con mio zio di molte cose, spaziando dall'arte alla politica fino al loro passato. In una di queste occasioni, con il giornalista del settimanale "Giorni", diretto da Davide Lajolo, lo zio rievocò un episodio drammatico accadutogli all'età di 13 anni, nel maggio 1934.
In quell'anno i suoi genitori si erano trasferiti da poco con i cinque figli dal loro paese natale di Ranzo, a Godenzo, in una di quelle caratteristiche case con il tetto di paglia che ancora si potevano vedere nelle Valli Giudicarie. Mentre il padre era al lavoro nei campi con il figlio maggiore Mansueto e la madre si era allontanata un momento da casa, la custodia dei fratellini più piccoli che ancora dormivano (Ferruccio, di cinque anni, che poi sarebbe diventato mio padre, Maria e Rina di pochi mesi) era sta affidata a Carlo. Proprio in quell'istante scoppiò un furioso incendio che dal tetto si propagò per tutta la casa, anche nelle stanze dove si trovavano i bambini. Lo zio ancora oggi si commuove al ricordo di quell'evento drammatico e non sa spiegare quale forza lo abbia spinto a salvare, trascinandoli fuori dalla casa in fiamme, il fratellino e successivamente le due sorelle. L'incendio in pochi minuti aveva bruciato la casa e quando i genitori accorsero sul luogo cedettero di aver perso anche i figli; i vicini li tranquillizzarono: erano tutti salvi.
La notizia del salvataggio ben presto si sparse per tutta la valle, giungendo fino alle orecchie delle autorità fasciste che decisero di premiare quell'"atto eroico" con una medaglia d'argento al valor civile, consegnata a mio zio direttamente dalle mani di Benito Mussolini a Roma.
A quell'episodio se ne aggiungevano altri, legati alla vita militare e alla successiva prigionia in un lager dell'Austria dal 1943 al 1945.
Quelle continue visite di persone estranee all'ambito familiare e che venivano da così lontano per vedere le opere dello zio, mi sconcertavano un poco perché ai miei occhi di bambina (avevo allora circa sette-otto anni) lui rimaneva sempre un caro compagno di giochi piuttosto che l'artista affermato.
Proprio in quegli anni, precisamente nel 1973, accadde però un fatto che mi fece intuire che, colui che consideravo un semplice familiare, era invece una persona un po'fuori del comune.
Una mattina, poco prima di uscire per andare a scuola, vidi lo zio entrare in casa sconvolto con la notizia che gli erano stati rubati i quadri. Da quanto poi i miei genitori mi hanno raccontato, lo zio, lo zio, al momento di entrare nello studio, aveva trovato la porta scassinata e, all'interno, parecchi dei quadri cui era maggiormente affezionato, erano stati trafugati; la notizia del furto suscitò vasta eco sulla stampa locale e dopo un decina di giorni i dipinti vennero ritrovati.
L'amore per l'arte si manifestava anche verso i grandi artisti del passato, che lo zio voleva farci conoscere. Spesso la domenica, dopo aver scelto la mostra da visitare su qualche rivista d'arte a cui era abbonato, dopo una levataccia si partiva tutti insieme alla volta di Trento dove prendevamo il treno che ci avrebbe portato a Firenze, oppure a Milano o a Venezia. Quest'ultima era la sua città preferita: conosceva a memoria gli stretti canali o i passaggi tra le numerose calli. Durante il viaggio in treno, guardavamo dal finestrino i numerosi paesi che si succedevano uno dopo l'altro e giocavamo ad indovinarne i nomi oppure gli stili delle chiese e dei campanili che svettavano tra le case.
Una volta giunti in città ci aspettava una lunga camminata per giungere alla mostra o al museo: lo zio ci precedeva sicuro di qualche metro e di quando in quando si voltava per vedere se lo seguivamo; noi prendevamo come punto di riferimento i suoi capelli bianchi, cercando di tenere l passo tra la folla dei turisti. Nella seconda parte della giornata, dopo una piccola pausa per il pranzo, stabilito l'orario di ritorno, si visitavano le chiese.
A quel punto sopraggiungeva la stanchezza e di fronte alle nostre proteste sapeva lusingarci con la promessa di qualche ricordo da portare a casa, acquistato tra gli oggetti posti sulle bancarelle.
Tappa obbligata, oltre ai principali musei della città, era la Chiesa dei Frari, dove era esposta la celebre "Assunta" di Tiziano. Davanti a quel quadro sostava a lungo e noi, che lo guardavamo un po' stupiti per tanta ammirazione, svelava qualche particolare nella composizione del dipinto o qualche notizia dell'autore che permettevano di considerare l'opera con occhi nuovi.
Sulla via del ritorno, mentre il treno ci riportava a casa, lo zio sfogliava i cataloghi delle mostre e ci raccontava che quando aveva la nostra età era molto povero e libri così belli non li aveva mai avuti.
Forse è per questo che non mancava mai di portarci a casa giornali, riviste, ma soprattutto libri per noi ragazzi, trasmettendoci il piacere della lettura.
Soltanto più tardi aveva potuto formarsi una piccola biblioteca, soprattutto libri d'arte e di tecnica pittorica, letti con grande passione. Su questi testi ("Saper vedere", "Come si guarda un quadro", entrambi di Marangoni, o altri del Berenson, di Ardengo Soffici e altri legati alla tecnica artistica) si era formato la propria concezione dell'arte ed aveva acquisito i principi fondamentali delle tecniche pittoriche, dal disegno, alla pittura ad olio, all'acquerello fino all'affresco, quest'ultimo studiato secondo le regole dei pittori cinquecenteschi. Il tutto poi veniva sperimentato con infinita pazienza: dalla preparazione di vari tipi di mestica da applicare sulle tele prima di dipingere fino ad approntare l'intonaco da stendere sul muro per realizzare gli affreschi sul vecchio oratorio di Godenzo e sulla nostra casa.
È trascorso molto tempo dai fatti narrati in questo scritto, mio zio ha superato ormai i 70 anni, ma continua a comunicare la stessa carica di esemplare umanità e sincera passione per l'arte, attraverso i suoi dipinti e la sua vita quotidiana nella nostra famiglia.

Gemma Sartori

Da: Gemma Sartori (a cura di), La saga contadina del pittore Carlo Sartori, 1993.

 




 

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