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                         | CARLO 
                SARTORI PITTORE DI GODENZO - di Maria Marsilli L'amore 
                per la natura e per la propria terra, è particolarmente 
                radicato nell'animo dei poeti e degli artisti.Anche Carlo Sartori, in un incontro che ho avuto recentemente 
                con lui, a Godenzo, prima ancora di mostrarmi i suoi quadri, motivo 
                della mia visita, mi offerse, con occhi scintillanti e con ampio 
                gesto della mano, la visione della Valle, in un atto di fede e 
                di compiacimento.
 A Godenzo, che sempre lo affascina, Carlo Sartori vive da quarant'anni.
 Si chiama Godenzo un paesetto del Comune di Lomaso, situato al 
                limite Est della Val Giudicarie, in una dolce piana di ampio respiro 
                di campi e prati, in una cerchia di montagne che aprono uno spiraglio 
                all'affacciarsi di alcune cime del Brenta e dell'Adamello, pregne 
                di soavità. Conta 400 abitanti che fino a qualche anno 
                fa vivevano miseramente del ricavato dei loro piccoli campi. Con 
                il sorgere di alcune fabbriche nei Comuni vicini, i giovani di 
                Godenzo sono andati là, in cerca di un guadagno che desse 
                loro la possibilità di una vita meno dura. Senza rinunciare 
                tuttavia alla coltivazione della terra, alla quale dedicano le 
                ore libere dal lavoro di fabbrica, coadiuvati dalle persone anziane 
                rimaste al paese, e dalle macchine agricole. Ma le piccole stalle 
                del paese,ovviamente, sono state vuotate dei loro animali.Perché 
                non vale certo il diuturno sacrificio di un uomo per curare una 
                o due sole bovine. A colmare questo vuoto, sono però sorte 
                a Godenzo quattro imprese zootecniche d'una certa consistenza, 
                una delle quali raggiunge i seicento capi di bestiame. Sono stalle 
                razionali,dotate di servizi automatici,che riducono notevolmente 
                la mano d'opera e le relative spese.
 Carlo Sartori giunse a Godenzo, proveniente da Ranzo, all'età 
                di dieci anni,insieme con la famiglia paterna: una famiglia patriarcale.
 A Ranzo, il padre di Carlo, Paride Sartori, uno dei pochi valligiani 
                che non si dedicasse alla terra, faceva il calzolaio. E la sera, 
                per divertire i suoi undici figlioli, costruiva giocattoli con 
                mano agile e sapiente. La produzione di scarpe, di lui che era 
                considerato in tutta la Valle l'artigiano-artista del settore, 
                era ricercatissima. Le confezionava a mano, con somma cura, senza 
                l'ausilio di macchine, e le garantiva per una durata di tre anni. 
                Ma il guadagno che ne ricavava, non aveva durata alcuna. Con tutte 
                quelle bocche da sfamare, spariva come neve al sole!
 Fu così che i figli man mano che crescevano, dovettero 
                assoggettarsi troppo presto a qualche attività, per sollevare 
                in certo qual modo il padre dal grave carico di famiglia.
 Carlo, sesto dei figli, insieme con il fratello maggiore, iniziò 
                a nove anni la dura esperienza dell'alpeggio. Dai contadini della 
                Valle veniva affidato alla loro custodia un branco di quaranta 
                manze, verso un compenso di dieci lire al giorno; multe a loro 
                carico (qualora le bestie fossero entrate sui terreni altrui o 
                avessero danneggiato piante o cose).
 Lassù, nella malga Naone (ora abbandonata), i pasti giornalieri 
                dei ragazzi si riducevano a polenta e formaggio. Mai niente di 
                più o di diverso. Dormivano nel sottotetto d'un vecchio 
                baraccone adibito al ricovero notturno del bestiame, in un piano 
                tirato su con quattro assi traballanti, disposte sopra la stalla. 
                Nelle notti che seguivano le giornate di pioggia, i due fratelli 
                si coricavano nel loro giaciglio, inzuppati d'acqua, e ne uscivano, 
                la mattina seguente, ancora bagnati. Perché un ricambio 
                di indumenti, non si poteva neanche sognarlo. E l'aria della baracca, 
                pregna del respiro degli animali, era pesante.
 La stagione dell'alpeggio era lunga: si protraeva fino a novembre.
 Carlo, quando ritornava al paese, lo sentiva estraneo, anche se 
                più ricco colore e di vita umana.
 Tutto ciò che accadeva nel mondo degli uomini, impressionava 
                tristemente il ragazzo che ormai si sentiva più vicino 
                al monte e agli animali, che per lui erano pieni di richiamo e 
                di significato.
 Tutto ciò che accadeva nel mondo degli uomini, impressionava 
                tristemente il ragazzo che ormai si sentiva più vicino 
                al monte e agli animali, che per lui erano pieni di richiamo e 
                di significato.
 Era attratto però dalle funzioni religiose, in cui vedeva 
                il folclore, le scene di vita più movimentate. Rifaceva, 
                in casa e sulle strade, le prediche del parroco, le processioni 
                e i funerali, travestendo se stesso e i suoi compagni da preti, 
                e seminando lo scandalo fra i paesani.
 Poi seguiva l'opera dell'imbianchino, senza tuttavia presagire 
                che un giorno quel lavoro sarebbe toccato anche a lui."Che 
                ghe metet giò-gli chiedeva-per far quel color? E per far 
                quel altro?" Indi provava e riprovava a spennellare qualche 
                pezzo di muro della sua casa,usando estratti di bacche e di erbe, 
                o terrette. Finché la coprì tutta, trasformandola 
                in una ridente tavolozza.
 Disegnava tutto ciò che accadeva in paese, a tergo di immaginette 
                che gli donava il parroco, dato che altra carta in casa non c'era.
 Da quanto egli racconta,si ha però l'impressione che gli 
                desse più gioia l'incidere, con l'uso d'un temperino, sulla 
                corteccia degli alberi,figure di animali della montagna. È 
                ritrovabile ancora oggi a Malga Naone, sul tronco d'un faggio, 
                un suo disegno di un capriolo, che s'è allargato smisuratamente 
                con il crescere della pianta.
 Degli anni giovanili di Carlo, c'è infine il capitolo della 
                scuola,che pesa nei suoi ricordi. Frequentò solamente le 
                "elementari"del paese, che avevano cinque classi. Nei 
                primi due anni, fu il primo della classe. Ma in terza, forse per 
                l'incomprensione di una nuova insegnante, tornò a zero. 
                Poi vennero la quarta e la quinta classe, fastidiose, perché 
                ripetute più volte, in attesa del raggiungimento dei quattordici 
                anni, che segnavano anche allora il limite di età dell'esenzione 
                dall'obbligo scolastico.Unica sua soddisfazione:il privilegio 
                d'esser stato sempre prescelto ad illustrare sulla lavagna i fatti 
                salienti della Storia d'Italia, e qualche schizzo topografico.
 Ma ecco che finite le elementari, lo prende una tale sete di sapere, 
                che lo avrebbe sottoposto a qualsiasi sacrificio, pur di continuare 
                gli studi. Ma le "Medie"erano lontane. Richiedevano 
                spese. E denaro non ce n'era.
 Fu allora che Carlo Sartori si accinse a fare l'imbianchino e, 
                nelle ore libere dal lavoro, si mise a studiare da solo, sui pochi 
                libri che poteva acquistare o avere a prestito, nonché 
                a disegnare e a dipingere sullo sfondo ideale del suo paesaggio 
                e della sua passione.
 Finché venne la guerra (la seconda guerra mondiale),che 
                lo portò via, in un campo di concentramento tedesco, ove 
                anche lui soffrì i patimenti fisici e morali che molti 
                di noi conosciamo.
 Carlo Sartori ha ora i capelli bianchi, ma ancora folti, con la 
                spaccata. Occhi scuri, spalancati, estasiati. Corporatura tarchiata 
                e passo cadenzato, da montanaro; e montanaro è rimasto 
                dentro.
 Racconta la triste storia della sua infanzia e della sua giovinezza, 
                senza risentimenti; anzi,con voce carica di vivacità e 
                illuminata da ottimismo. Il suo cuore caldo, anche ora che la 
                sua esistenza è migliorata è rimasto aperto all'uomo 
                che vive duramente, e agli animali. Li conosce, li comprende, 
                li ama. Perciò, nel suo istinto artistico, nella sua arte 
                figurativa che è nata in lui con una forza impellente, 
                sono sempre loro i suoi soggetti preferiti.
 Dalle sue figure emana un respiro che non può essere interpretato 
                che come un messaggio d'amore.
 A prima vista, le dimensioni delle sue immagini appaiono pesanti 
                e rigonfiate. Ma poi piacciono molto, perché sono personalissime 
                e coerenti.
 Alcuni critici lo avvicinano, per concezione, all'artista Gino 
                Pancheri di Trento; altri affermano che si sia ispirato a Vincent 
                van Gogh. Ma il Sartori ribatte di non esser mai stato influenzato 
                da alcuno. Autodidatta, approdò a se stesso con il suo 
                sentire e con l'apprendere dalla natura e dalla vita.
 Nella pittura gli piacciono e usa solitamente, con impeto selvaggio, 
                colori squillanti e puri, come l'arancio, il rosso e l'ocra.
 Oltre ad altri validi riconoscimenti, Carlo Sartori, con la sua 
                opera intitolata"Scampagnata", vinse, nel 1971, il "Primo 
                premio ex aequo" a Luzzara di Reggio Emilia, in una importante 
                Mostra (trasferita successivamente a Bologna e a Milano), riservata 
                ai "Naifs" di tutta Italia.
 L'opera sua prescelta viene conservata nel Museo Nazionale dei 
                Naifs, che ha sede a Luzzara, unico del genere in Italia.
 Da allora, la pittura di Carlo Sartori va sempre più accrescendo 
                il suo apprezzamento ed è ricercata sia dalle Gallerie 
                d'arte che dai collezionisti.
 Si direbbe che a concepire il suo felice impasto di colore e di 
                calore umano, il suo orizzonte di sensibilità, sia sta 
                appunto la sua sofferenza, quella che nasce dal connubio della 
                povertà con l'ingegno e che perciò, essendo più 
                spesso genuina ed autentica, ha costituito nel Sartori il ruolo 
                determinante della sua formazione artistica, che perdura, per 
                elevarsi in una sempre più completa presa di possesso dei 
                motivi intorno ai quali il suo cuore e il suo estro si sono cementati: 
                la vita contadina, fine a se stessa.
 Più che le parole, lo testimoniano i vari quadri qui riprodotti, 
                dove l'uomo e l'animale s'inseriscono felicemente nella scena 
                e divengono il soggetto idillico che acquista un singolare vigore, 
                e un discorso senza fine.
 Da: 
                Il seme. Rivista di agricoltura, n.2, marzo-aprile 1974. |